METTERE DIO AL CENTRO

Parole di Benedetto XVI alla Chiesa in Svizzera


Dal 7 al 9 novembre 2006 Papa Benedetto XVI ha incontrato, a conclusione della loro Visita ad limina, i vescovi svizzeri. In questo volume sono raccolte le sue parole accompagnate da alcuni commenti. Viene così messo in luce come il Papa, pur accennando a questioni particolari, proprie della Chiesa in Svizzera, abbia chiaramente voluto sottolineare l'importanza di "mettere Dio al centro" di ogni impegno ecclesiale.
Ciò si traduce nella priorità della fede, nella necessità del rapporto personale con Gesù Cristo, nel modo di intendere la liturgia e di affrontare le grandi questioni morali e pastorali del nostro tempo.

SOMMARIO

Il carattere universale, misterico e festoro della liturgia
SER Mons Amedeo Grab

La Visita ad limina che i Vescovi svizzeri hanno compiuto nel novembre 2006, a chiusura di quella svoltasi ai primi di febbraio 2005, non ha avuto inizio con il discorso inaugurale pronunciato da Papa Benedetto XVI nella Sala Bologna del Palazzo Apostolico, bensì già con la solenne liturgia concelebrata nella Cappella Redemptoris Mater, inaugurata da Papa Giovanni Paolo II. Solenne, per la partecipazione dei Capi-Dicastero della Curia, per lo splendore del sacro rito, per i canti gregoriani eseguiti da un’eccellente Schola cantorum, non da ultimo per l’omelia tenuta dallo stesso Pontefice. Quanto poi da lui proposto nel discorso di apertura nel senso di una «qualche osservazione» sulla liturgia è stato accolto dai Vescovi con la viva gioia scaturita da quella celebrazione esemplare, a conferma del valore fondamentale rivestito dall’esperienza nell’accostarsi alla sacra liturgia. In essa la Chiesa si riceve dal suo Signore, si unisce a Lui nel Sacrificio della Croce, proclama la sua risurrezione nell’attesa della sua venuta. «Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato viene celebrato sull’altare, si rinnova l’opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo. Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da Lui veniamo, per Lui viviamo, a Lui siamo diretti» (Lumen gentium, 3).
Quanto ricordato con queste parole dal Concilio Vaticano II è stato riproposto e sviluppato da Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia nel Giovedì Santo del 2003 in preparazione all’Anno Eucaristico; ripreso in seguito nell’insegnamento del Papa, nei documenti della Santa Sede e dei Vescovi durante lo stesso Anno dell’Eucaristia e nei lavori dell’XI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, tenutasi nell’ottobre 2005. A taluni è sembrata eccessiva la mole dei documenti dedicati al tema eucaristico. Ma la Chiesa non può rinunciare a chinarsi in adorazione sul mistero che la costituisce e che, assieme, è il vertice del suo agire: L’Eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa (Sinodo dei Vescovi 2005).
Vista da questa altezza e colta in questa profondità, la liturgia non può essere solo la messa in opera di un rituale, ripetuto in mera, inintelligente fedeltà alle rubriche o ricreato di volta in volta secondo il gusto o la sensibilità del celebrante o di una data comunità. Spesso al sacerdote viene chiesto quando «farà» la Messa. La domanda ha un senso in quando la liturgia è una azione («sacrum litare», «sacrum conficere» sono espressioni forti, riferite all’agire, come la stessa parola «liturgia» si riferisce ad un «ergon», una prestazione). Però il sacerdote, per quanto resti membro del popolo che celebra, agisce «in persona Christi»: è Lui che convoca e raduna, annuncia la Parola e offre il sacrificio. Il sacerdote non è ideatore della celebrazione, non ne è il padrone.
Certo, c’è nella Chiesa una diversità di riti. Sono numerosi tra gli Orientali, ortodossi e cattolici. La Chiesa latina ha serbato alcuni riti particolari (ambrosiano, domenicano ed altri). Lo stesso rito romano è stato riformato più volte, tra l’altro dopo il Concilio di Trento e in seguito al Vaticano II. Ma sempre in modo tale da vincolare chi celebra alla norma della Chiesa. Ai candidati al presbiterato il Vescovo chiede se vogliono celebrare fedelmente i misteri di Cristo secondo la tradizione della Chiesa: la fedeltà alle rubriche va intesa in questa visione ampia, che esclude quella che il Papa nel suo discorso ai Vescovi svizzeri chiama «auto-manifestazione» o messa in scena della comunità (e anche, evidentemente, del celebrante). Non si tratta allora di grettezza, incapacità di formulare una preghiera, povertà espressiva, non-coinvolgimmento della persona nel rito, apatia o servilismo rubricistico. È piuttosto la gioia di fare quello che fa la Chiesa, con gioiosa umiltà e con la volontà di tradurre il Mistero nella comunione fattiva della vita quotidiana e nello slancio missionario che mira ad includere nella celebrazione le gioie e le pene, il lavoro e l’anelito alla giustizia e alla pace di tutti gli uomini.
La densità della celebrazione non le proviene dalla moltiplicazione di segni arbitrari, dalla creazione di simboli diversi dai segni sacramentali, da aggiunte ritenute espressive delle realtà quotidiane. Le Messe rituali in occasione di battesimi, confermazioni, ordinazioni, professioni religiose, matrimoni e funerali tengono certamente conto delle persone e dei momenti particolari della vita delle comunità. Vi sono gradi di solennità, scelte di canti adatti ai diversi tempi liturgici, elementi di presentazione variabili secondo il tipo di assemblea. Ma resta fondamentale quanto il Papa – che negli ultimi anni molto ha scritto sulla liturgia e anche sulla «riforma della riforma» – ha detto ai Vescovi: ciò che conta è «l’accedere al grande banchetto dei poveri, l’entrare nella grande comunità vivente, nella quale Dio stesso ci nutre... Nell’Eucaristia riceviamo una cosa che noi non possiamo fare, entriamo invece in qualcosa di più grande che diventa nostro, proprio quando ci consegniamo a questa cosa più grande cercando di celebrare la Liturgia veramente come Liturgia della Chiesa». I richiami dei Vescovi, come, per la Svizzera, quelli contenuti nel «Messaggio dei Vescovi svizzeri riguardo all’Istruzione Redemptionis Sacramentum» («Rivista della Diocesi di Lugano», 1-2 2005, pp. 39-40) non sono di tipo disciplinare; sono un invito a vivere in profondità il mistero universale affidato alla Chiesa dall’amore redentore di Cristo.
Parlare del carattere «misterico» della liturgia a qualcuno sembrerà forse astruso. Ma «sacramento» e «mistero» sono intimamente collegati. Sacramentum era per i Romani il giuramento del soldato. Per i cristiani, a partire della teologia dell’Alleanza che Dio ha stretto con noi in Cristo, il sacramento è segno efficace di grazia, è dono che rivela e suggella la sacralità della vita rinnovata in Cristo. Essa è mistero in quanto supera le capacità cognitive e operative dell’uomo. È nuova creazione. Papa Benedetto allude alla componente misterica dell’Eucaristia nel passo del suo discorso dedicato all’omelia.
Circa la pratica diffusa nelle diocesi di lingua tedesca di affidare, almeno occasionalmente, l’omelia a ministri non ordinati (assistenti pastorali), egli sottolinea che il criterio non può essere quello del «maggior profitto» che i fedeli possono trarre dalla competenza del predicatore; questa, della presunta o reale edificazione proveniente dall’idoneità del predicatore invitato dal celebrante, «è una visione puramente funzionale». Ed aggiunge: «L’omelia appartiene all’evento sacramentale, portando la Parola di Dio nel presente di questa comunità... Ciò significa che l’omelia stessa fa parte del mistero… e quindi non può semplicemente essere slegata da esso». Con questo, il Papa non nega la legittimità della norma secondo la quale, nella celebrazione, ognuno deve fare tutto e solo quello che gli compete (il sacerdote non è diacono né lettore né ministrante né cantore, questi a loro volta non sono il sacerdote), ma richiama la norma universale per la quale l’omelia della Messa è riservata al celebrante, fermo restando che un altro sacerdote o un diacono la possono tenere.
I Vescovi svizzeri sono dunque chiamati a far capire e a osservare la norma. Si sono impegnati a restare in contatto con i Dicasteri della Curia Romana per procedere nel modo più consono alla comunione universale e alla responsabilità pastorale. Ricordando con forza e chiarezza che l’omelia fa parte del mistero celebrato nell’Eucaristia, il Papa esorta indirettamente i sacerdoti, cui l’omelia è affidata, a considerare la dignità di questo ministero. Se l’omelia, senza essere la Parola rivelata, è Parola di Dio, chi predica si deve sentire in obbligo di approfondire nello studio il testo biblico proclamato, di meditarlo, di farlo accogliere in modo tale da vivificare la fede e la testimonianza di chi ascolta. Responsabilità schiacciante, ma possibile da portare perché il Signore non abbandona alle proprie forze chi invia ad annunciare il Mistero. Ricordo il profeta Geremia: «‘Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane’. Ma il Signore mi disse: ‘Non dire: Sono giovane, ma va’ da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò... Io sono con te per proteggerti’» (Ger 1,6-8). Ci conforta una certezza: Siamo chiamati tutti all’obbedienza della fede, confidando che lo stesso Pontefice ci aiuterà a capire sempre meglio la portata del suo discorso e assumendo, noi Vescovi, la responsabilità della celebrazione del Mistero, traendone, noi per primi, forza e gioia.
Infatti, non ci apriremo al mistero se l’anima e il cuore non sono in festa. Molti giovani giustificano con molta – troppa – faciloneria la loro assenza dalla S. Messa dichiarando di annoiarsi in chiesa. Non si rimedia con musiche da discoteca, ma riscoprendo la liturgia come festa. Non vivendo da festaioli o riducendo l’invito evangelico alla conversione ad un «buonismo» superficiale che escluda la drammaticità del peccato o la responsabilità morale. Ma credendo e proclamando che Gesù Cristo ha vinto il peccato e la morte e ci invita a vivere da salvati. Nel passo del suo discorso conclusivo dedicato alla «festa della fede» il Papa collega, in modo forse inatteso, festa e silenzio, dichiarando di percepire «quanto sia importante per i fedeli, da una parte, il silenzio nel contatto con Dio e, dall’altra, quanto importante poter vivere la festa». Ricorda di aver visto nelle sue recenti visite pastorali che la fede vissuta come festa accompagna e guida le persone. Lo conferma l’esperienza di molti credenti, lo confermano le Giornate mondiali della Gioventù, lo conferma la serenità gioiosa delle comunità contemplative, come la profondità spirituale di tanti ammalati e anziani che incontriamo.
Nel suo discorso di apertura Benedetto XVI ha dichiarato di voler «fare solo qualche ‘primo tentativo’, che non intende presentare delle affermazioni definitive, ma vuole soltanto avviare il colloquio». Le conclusioni, ancora attese nel momento in cui scrivo (27 gennaio 2007), dovranno manifestare la perfetta unione della Chiesa che è in Svizzera con la Chiesa universale. Ai Vescovi svizzeri, cui il Papa si è rivolto con tanta schiettezza e tanto calore, preme impegnarsi perché le sue parole e l’assieme della Visita rinnovino, confortino, incoraggino le nostre Diocesi, correggendo e migliorando quanto necessario. Attingano le nostre comunità gioia vera, coerenza di vita e slancio missionario dalla celebrazione fedele dei santi misteri, fonte e culmine della vita della Chiesa.